giovedì 27 marzo 2008

L'impero sigillato: bloccati Toni Negri e la Mozzarella di Bufala




Comincio a pensare che l'Impero, anzichè in letale letargo, come sembrerebbe a giudicare dalle sempre più rare e noiose apparizioni del premier Fukuda, sia vivo e vegeto. E che ci sia una acuta regia, ancorchè situata lontano da Nagatachò, il quartiere del "palazzo" giapponese. Impaurito, scocciato o semplicemente annoiato e quindi disposto a prendere qualsiasi inziativa, ancorchè bizzarra, pur di far notizia, l'Impero rispolvera la vecchia strategia del "sakoku" ("chiusura del paese") e cerca di sigillare le frontiere per proteggere i suoi cittadini dalla contaminazione aliena. Successe nel XVII secolo, per difendersi dall'evangelizzazione cristiana (e sono in molti a sostenere che se non ci fosse stata quella decisione oggi sul trono del crisantemo siederebbe un gesuita), è successo qualche anno fa in occasione di mucca pazza, e ricapita in questi giorni.
La saracinesca imperiale è scattata per bloccare due pericolosissimi virus: il negri-pensiero e la bufala campana. Alla maggior parte di voi sfuggirà il nesso, ma evidentemente c'è, perchè in questo paese, osservava Roland Barthes e può confermarlo qualsiasi alieno che vi abbia soggiornato per più di qualche ora, nulla avviene per caso. Ragioniamoci un po'.
Innanzitutto,vale la pena notare che nel giro di conferenze organizzato per Toni Negri da un comitato locale che comprendeva il Gotha accademico dell'arcipelago (Todai, Geidai, Kyodai) non era prevista alcuna tappa ad Hokkaido, nonostante sia sede di una prestigiosa università. E non per caso. Il co-autore di "Impero", tradotto (e discretamente venduto) anche in Giappone, era stato fin dall'inizio "ingabbiato" nell'isola di Honshu, evitando così ogni rischio che la sua micidiale sintassi potesse raggiungere le bio-masse di Hokkaido, provocando l'insurrezione degli Ainu, degli orsi e dei coltivatori (indiretti).
Hokkaido, dopo aver eliminato ogni traccia dei suoi fieri e pelosissimi indigeni (i poveri Ainu tanto cari al compianto Fosco Maraini) ed essere sopravvissuta alla (mancata) orda di "hooligans" durante la Coppa del Mondo del 2002, sta ora subendo una efficace campagna di sterilizzazione per proteggersi dai perniciosissimi "no - global", che una ne fanno e cento ne pensano (pare che alcuni stiano complottando con Greenpeace per ottenere le mappe dettagliate delle coste, in modo da poter invadere l'isola dal mare, via Sakhalin, mentre altri meditino di travestirsi da orsi e invadere Rusutsu dalle montagne).
Hokkaido è anche la "fattoria" del Giappone: nell'isola si produce il 90% del latte e dei suoi derivati, mozzarelle e "parumisanu" compresi. Ovvio che dal "rallentamento doganale" - il nuovo eufemismo amministrativo inventato dall'Impero delle Circolari in occasione del blocco delle mozzarelle italiche - Hokkaido e le sue multinazionali del caglio azimo non possono che trarre vantaggio. Basta vedere come stanno schizzando i prezzi del cacio made in Japan, libero da diossina ma anche da ogni accenno di sapore.
Dicono che il Giappone, come l'Italia, stia agonizzando. Forse questo vale per i suoi cittadini, sempre più stanchi e vessati, costretti a combattere con le forme più aggravate delle malattie del secolo: disoccupazione, recessione, depressione, crisi della politica e dei valori sociali. Ci accumuna persino la degenerazione dello sport: da noi impazza il calcio scommesse, qui è il sacro mondo del sumo a scricchiolare sotto i colpi delle mazzette degli incontri combinati.
Ma l'Impero, come il Papato, è vivo e vegeto, e non ha nessuna intenzione di soccombere. La brillante reazione locale contro la potenzialmente micidiale alleanza gastroculturale rappresentata dal Negri pensiero e dalla Bufala campana ne è impeccabile testimonianza. Come quella del Pastore Tedesco contro chiunque, in Italia, minacci di importare lo Jamòn Iberico e il rigore laico di Zapatero.

mercoledì 26 marzo 2008

Un grande uomo: Shi Ming-te



Nel 1984, appena rilasciato dopo 24 anni di prigione di cui 14 in isolamento, l'allora presidente ceco Vaclav Havel l'aveva candidato al premio Nobel. Adesso, a 72 anni, Shi MIngte, ha appeso la politica al chiodo. Dopo aver lottato per tutta la sua vita e con tutte le sue forze per la democrazia, scampato alla pena di morte due volte e più volte torturato, Shi,sabto scorso, non è andato a votare.
L'ho intervistato a casa sua, per un paio di ore. Un grande. Ha rifiutato le moine di entrambi gli schieramenti - Shi "vale", ancora oggi, almeno un milione di voti - e ha preferito restare a casa. "So che è una sconfitta, una sorta di fuga: votare è un dovere, oltre che un diritto. Ma dopo 24 anni di carcere e due condanne a morte penso di aver dato abbastanza alla democrazia di questo paese. E di avere il diritto di fermarmi a pensare. Possibile che non ci sia una via di scampo? Possibile che non ci sia alterativa?Possibile che l'unica scelta che abbiamo è tra dittatura militare e democrazia corrotta?

Il ritorno del Kuomintang



Musi lunghi tra gli amici taiwanesi che tifavano per il DPP, il partito democratico progressista di Chen Shuibian. Altro che effetto Tibet. Chen ed il suo partito hanno beccato una batosta elettorale senza attenuanti: il loro candidato,l'ex premier Frank Hsieh, ha preso oltre 2 milioni di voti di meno di Ma Yingjeu, l'ex sindaco di Taipei che da qualche anno ha "modernizzato" il vecchio partito nazionalista, rendendolo meno inpresentabile in patria e all'estero. C'è chi pensa che questa vittoria del Kuomintang rappresnerta un rischio per la giovane democrazia taiwanese ed un respiro di sollievo per Pechino, che mal avrebbe sopportato, soprattutto alla vigilia delle Olimpiadi e dopo quanto sta succedendo in Tibet, altre "provocazioni" aldilà dello stretto. Ma è una lettura molto superficiale, a mio avviso. Il vecchio Kuomintang - pace all'anima sua - è morto. Paragonare Ma al generale Chang Kaishek equivale a paragonare Gorbaciov a Stalin, o Fini a Mussolini. Le cose sono cambiate anche a Taiwan, e dopo 8 anni di potere da parte del DPP - negli utlimi tempi decisamente malgestito - non c'è nulla di male che la gente, attraverso un impeccabile esercizio elettorale, abbia deciso di puntare su un leader giovane, capace e carismatico. Quanto a Pechino, non è detto che Ma sia un affare: con un tipo come Chen Shuibian i dirigenti cinesi avevano gioco facile, le sue "provocazioni", spesso rimaste tali, venivano respinte tra insulti e improperi. E siccome erano minacce inaccettabili, suscettibili di provocare la terza guerra mondiale, Chen alla fine si era ritrovato sempre più solo. Negli ultimi tempi perfino gli Usa, tradizionali alleati di Taiwan, gli avevano rifiutato non solo il visto, ma perfino il diritto di transito negli Stati Uniti, durante un suo recente viaggio in America Centrale.
Il presidente eletto Ma, dal canto suo, ha iniziato alla grande. Dopo aver chiesto scusa al popolo taiwanese per gli eccessi del Kuomintang durante la dittatura, ha promesso di puntare sull'integrazione economica, culturale e sociale, anzichè quella politica. Del resto, perchè perdere tempo e provocare tensioni per proclamare ufficialmente quella che è già una realtà da oltre 50 anni? Un conto è il riconoscimento formale, un altro è quello di fatto. E di fatto, non c'è nessuno che neghi che Taiwan sia - di fatto - uno stato libero, sovrano ed indipendente, e non, come pretendono i cinesi, "una provincia ribelle".
Niente proclami dunque, ma più scambi culturali e commerciali e soprattutto voli diretti. Oggi per andare in Cina, dove hanno investito milioni e milioni di dollari, i taiwanesi debbono passare da Hong Kong o da Tokyo....Quanto alla Cina, Ma ha detto che non sa se e quando andrà a Pechino. Ma ha già annunciato una visita negli Usa, prima ancora di essere insediato ufficialmente alla presidenza, il 20 maggio. Così da un lato ricuce con gli USA, dall'altro vede come la prende Pechino. Chiamatelo fesso.

martedì 25 marzo 2008

Dal Tibet a Taiwan: le ferite dell'impero (cinese)




Sono a Taiwan, reduce da una settimana intensissima, da tutti i punti di vista, a Dharamsala, nel nord dell'India, dove vive in esilio il Dalai Lama. L'unico posto, in questi giorni, dove si riesce "in qualche modo" a coprire gli eventi tibetani con qualche informazione in più. Non di prima mano, quelle ce le blocca il governo cinese, impedendo alla stampa di verificare di persona la situazione, ma almeno di seconda. E sono informazioni, aldilà del bilancio delle vittime e della dinamica degli scontsri (c'è indubbiamente il sospetto che ci sia qualcuno che soffia sul fuoco: ma è naturale, quando cazzo si può parlare del Tibet, se non in questi giorni di vigilia olimpica?? che denunciano ancora una volta la cantilena imperante della globalizzazione "on demand".
I diritti umani, come l'indice della borsa, sono un prodotto volatile, sottoposto i giochi della speculazioni e alle angherie del "mercato". Se in Tibet, anzichè meditare e recitare mantra, si producessero chip e ci fosse petrolio, le Nazioni Unite, opportunamente stimolate, sarebbero già in subbuglio. Ma il Tibet è povero e isolato, e perdi più c'è di mezzo la Cina, che nessuno, nemmeno gli Stati Uniti, hanno il coraggio di "Ingaggiare", neppure dialetticamente.
Mi è capitato in questi giorni, di sentirne - e vederne - di tutti i colori. Dalle immagini taroccate (che bisogno c'è?? di alcuni media (specie americani), che spacciavano monaci per teppisti e polizia indiana/nepalese per cinese, al dibattito organizzato a Sky nel quale mi sono ritrovato a dover discutere con Giorgio Mantici, docente di storia cinese all'orientale. Conosco Giorgio da molti anni, quando si occupava di Giappone, e me lo ricordavo meno dogmatico. Ha accusato la stampa - me compreso - di lasciarsi travolgere dall'emotività, finendo per disinformare. Secondo lui in Tibet non c'è nulla di drammatico, solo qualche teppista, probabilmente sobillato dall'estero, che approfitta del momento per attirare l'attenzione. Una versione un minimo edulcorata della posizione ufficiale di Pechino, che accusa il povero Dalai Lama di essere il capo della rivolta, un "Mostro a due facce, volto umano e cuore di bestia". Invito tutti quelli che hanno voglia e possibilità di andare a Dharamsala, o in Nepal, ai confini con il Tibet, e vedere con i propri occhi come vivono, con grande dignità ma abbandonati da tutti, migliaia di tibetani, un popolo dalle tradizioni millenarie che da molto tempo, checchè ne dicano le autorità cinesi, non chiede altro che gli venga riconosciuto di conservare le sue tradizioni culturali, linguistiche e religiose. Altro che l'indipendenza (che non ha alcun senso, oggi): il Tibet sogna l'Alto Adige. Possibile sia così difficile?